Rubrica Culturale

Le radici e il senso della Guerra di Secessione Americana

In occasione oggi, 15 aprile, dell’anniversario della morte di Abraham Lincoln, il Presidente statunitense che guidò l’Unione alla vittoria contro i Confederati nella Guerra di Secessione Americana, cerchiamo di comprendere in modo oggettivo senza filtri ideologici cosa determinò questo evento nella memoria collettiva degli americani e, perché no, stimolare una riflessione anche su quali conseguenze ha portato nella visione del mondo contemporaneo.

È retaggio del liberale Benedetto Croce l’idea che tutta la storia sia storia della libertà. Dopo la seconda guerra mondiale e la “fine della storia” di Francis Fukuyama, questa è divenuta la chiave di lettura comune della storia moderna e contemporanea, per la quale gli eventi storici capitali sono stati monumentalizzati come pietre miliari della libertà dei popoli oppure viceversa ridotti a momenti negativi transitori di una dialettica -rovesciata rispetto a quella hegeliana- che prepara una maggiore affermazione della libertà medesima.
Questa è la prospettiva in cui si è tentati di leggere anche gli eventi della guerra di secessione americana, che nella vulgata scolastica è ricondotta solitamente a un conflitto tra gli alfieri nordisti della libertà, destinati storicamente alla vittoria, e gli opliti confederati della schiavitù, condannati per necessità alla sconfitta e alla relativa damnatio memoriae che accompagna i vinti. Questa visione è una deformazione a posteriori della verità storica, tesa a celare che questa guerra è stata tutta interna al grande campo del liberalismo e della filosofia dei Lumi, come radici comuni della civitas americana.

Lo scontro tra il modello federale e quello confederale rende conto infatti non di una diversa idea di libertà, che è sempre quella moderna di matrice illuminista, ma soltanto di una diversa modalità costituzionale di attuarla in conformità alle esigenze specifiche dei popoli che partecipano alla costruzione dello Stato, secondo il principio stampato anche sul dollaro come simbolo e mezzo dell’unione federale vincitrice: e pluribus unum. Lo stesso vale per la questione della schiavitù dei neri, che diviene infine divisiva nella coscienza del popolo americano soprattutto in virtù del differente peso degli schiavi nella struttura economica degli Stati del Sud e di quelli del Nord, più che per la rilevanza morale della schiavitù in sé e dei diritti umani calpestati.
Il razzismo sotteso allo sfruttamento schiavistico degli africani è infatti un precipitato del materialismo illuministico settecentesco, che riducendo l’uomo alla sola dimensione fisica ed immanente de l’homme machine lo condanna alle definizioni farlocche delle tassonomie biologiche razziali e della frenologia, tanto in voga nel mondo accademico dell’epoca ma già confutate e superate in chiave teologica nei dibattiti del ‘500 sulla  natura e sui diritti degli Indios.

Se è infatti pur vero che la libertà è l’ideale guida delle rivoluzioni moderne, che la propongono come fondamento della natura umana e delle costituzioni politiche, è però anche vero che non vi è nel pensiero moderno accordo universale sulla definizione dell’umanità e di conseguenza sull’estensione di tale libertà e dei correlativi diritti come sue declinazioni specifiche. La libertà è infatti metafisica prima che esser politica e sappiamo che prima della rivoluzione metafisica del cristianesimo la schiavitù era definita come naturale da Aristotele, maestro di color che sanno. Questa è la contraddizione in cui insiste tutta la civiltà moderna e contemporanea, che fonda la propria identità e le proprie battaglie su valori di cui si è culturalmente appropriata ma dei quali al contempo si impegna da secoli a distruggere i fondamenti metafisici.
Nella classica similitudine, sega il ramo su cui essa stessa siede.
L’eccezionalità degli Stati Uniti  consiste nella particolare congiunzione tra l’Illuminismo dei suoi padri fondatori e della sua élite storica e lo spirito religioso ed avventuriero del suo popolo, il cui combinato disposto ha dato origine a tutta la fenomenologia culturale e politica del suo corso storico.

In tale prospettiva la guerra di secessione è assolutamente irriducibile, secondo una lettura manichea e semplicistica, a un conflitto tra schiavisti ed abolizionisti o tra conservatori e progressisti (che sottintende poi il conflitto fiabesco tra “cattivi e buoni”, al quale si riduce purtroppo gran parte della storiografia moderna), ma è da inquadrare all’interno di quella contraddizione generale della modernità, che di per sé non vede né vinti né vincitori ma soltanto uomini e fratelli trascinati dalla forza della storia, da idee spesso mendaci e da umane e troppo umane passioni sui fronti opposti dello stesso campo di battaglia, come gli Achei e i Troiani dalla potenza e dalla voce dei loro idoli. Più che una storiografia servirebbe un’epica della guerra di secessione: cercasi un Omero o un Virgilio.